Quando l’inclusione è anche una questione di business: i criteri ED&I

Equità, diversità e inclusione sono diventate in questi ultimi anni parole-chiave per le aziende, tanto da aver dato vita a un acronimo specifico, ED&I (o anche DE&I), che va ad aggiungersi idealmente a ESG, cioè i criteri ambientali, sociali e di governance, e agli SDG, gli Obiettivi di sviluppo sostenibile lanciati dall’Onu nel 2015.

Dal maggio 2021 esiste anche ufficialmente uno standard ISO “Gestione delle risorse umane – Diversità e inclusione” (30415). La norma non si limita ad affrontare diversità e inclusione da un punto di vista personale, ma fornisce un quadro di riferimento che copre tutti gli aspetti importanti nell’ambito di un contesto organizzativo.

Alla base, c’è l’idea di migliorare il benessere di tutto il personale, non solo evitando discriminazioni ma sostenendo diversi gruppi di individui, tra cui persone di etnia, età, stile, genere, personalità, convinzioni religiose e politiche, esperienze, orientamento sessuale e affettivo, differenze psicologiche, cognitive, fisiche e sociali diverse.

Anche perché, secondo il Global Compact Network Onu, “l’inclusione consapevole crea valore concreto dalla diversità”. Insomma, tutelare e promuovere la diversità è importante anche perché consente di ottenere risultati in termini di business. Ma è un dato che ancora fatica a farsi strada nel mondo delle aziende, in particolare in Italia.

A sostegno di questo valore, esistono i risultati di alcune ricerche. Per esempio, secondo uno studio McKinsey del 2015 sulle aziende di Stati Uniti, Canada, America Latina e Regno Unito, le imprese che si collocano nel quartile superiore per diversità di genere o etnica hanno maggiori probabilità di ottenere rendimenti finanziari superiori alla media del settore nazionale, mentre quelle nel quartile inferiore hanno invece statisticamente meno probabilità. Per McKinsey, “la diversità è probabilmente un fattore di differenziazione competitiva che sposta nel tempo le quote di mercato verso le aziende più diversificate”.

Da un sondaggio globale condotto nel 2021 da Workday – una multinazionale che fornisce alle aziende software per la gestione finanziaria e del capitale umano – tra 2.200 manager di settori diversi in di 14 Paesi (tra cui l’Italia), è emerso che tre imprese su quattro hanno un budget dedicato alle iniziative di ED&I.

Le iniziative più comuni sono campagne, iniziative di sensibilizzazione e azioni positive. Ma bisogna anche dire che meno di un’azienda su cinque misura l’impatto e il valore che le iniziative hanno sul business, e dunque è difficile valutare se le iniziative funzionano davvero e, di conseguenza, pensare a iniziative future.  E in ogni caso, gli intervistati hanno citato il bisogno di un maggiore coinvolgimento del personale e/o di un maggiore impegno da parte della dirigenza. 

Se veniamo all’Italia, però, si registrano ancora diversi ritardi, per quanto riguarda le politiche aziendali di ED&I. Il rapporto annuale 2022 “Future of Work”, diffuso nella primavera scorsa, indica che sei aziende su 10 non hanno ancora definito un piano a riguardo e due su 10 non pensano che sia importante farlo. Solo la metà degli intervistati pensa all’impatto che potrebbe avere sul business e meno di uno su due a quel che potrebbe valere in termini di maggiore fiducia da parte della comunità finanziaria.

Fra le azioni attuate dalle aziende, la gran parte sono dedicate a contrastare la disparità di genere (76% delle preferenze), che si manifesta principalmente nello sbilanciamento di responsabilità e retribuzioni tra uomini e donne. Ma allo stesso tempo, dal sondaggio emerge che solo il 44% delle aziende intervistate monitora in modo sistematico il gender pay gap e solo il 38% fa effettivamente qualcosa per ridurlo. Invece, le aziende dichiarano di concentrarsi di più sull’aumento del numero di donne in ruoli manageriali (il 60% ha azioni in corso in questo senso). Peraltro, in un report del 2022 dal World Economic Forum, l’Italia risulta al 63° posto nella graduatoria Global Gender Gap Index.

Un’indagine di Cegos, un’organizzazione internazionale di formazione, condotta su 4.000 dipendenti (500 italiani) – e oltre 400 tra direttori e manager delle Risorse Umane (60 italiani) rileva che il 63% dei lavoratori ha dichiarato di essere stato oggetto di discriminazione sul luogo di lavoro almeno una volta e l’82% di aver assistito ad almeno una forma di emarginazione perpetrata in primo luogo dai colleghi e dai manager. Tra il campione di interviste italiane, le discriminazioni segnalate sono maggiori rispetto alla media internazionale, in particolare per quel che riguarda l’età, il genere, l’aspetto fisico, la situazione familiare, la nazionalità.

Le politiche di inclusione possono avere diversi vantaggi, per le aziende, oltre alla soddisfazione del personale (che comporta a sua volta un maggior impegno sul lavoro). Possono permettere infatti di reclutare un maggior numero di talenti, cioè candidati qualificati con diverse competenze ed esperienze, che possono contribuire all’innovazione e alla creatività dell’azienda. Garantiscono una migliore reputazione tra il pubblico e i clienti (che possono anche contare su un miglior servizio, perché la diversità all’interno dell’azienda può contribuire a comprendere e soddisfare meglio le esigenze di clientele diverse). Riducono i rischi legali (legati invece a situazioni di discriminazioni) e infine assicurano una maggiore adattabilità, perché un’azienda di questo tipo è più pronta ad affrontare i cambiamenti e le sfide del mercato.