Da salumiere a gastrosofo e formatore: le molte vite di Pietro Passeri

Ogni vita ne riassume diverse, che si incrociano, si sovrappongono, si susseguono. Ed è così anche per la vita professionale di Pietro Passeri, che oggi ama definirsi gastrosofo, perché coltiva le conoscenze e la degustazione dei cibi, ispirandosi appunto ai princìpi della gastrosofia, che potremmo definire “la scienza del buon mangiare”. Ma Passeri, che è un orgoglioso autodidatta, è anche un formatore che gira l’Italia per impartire i suoi corsi, un esperto di merceologia alimentare, un detentore di primato del Guinness, un ex esercente (“salumiere”, dice lui) e sindacalista del commercio, un sommelier.

Crescere in bottega

Sessantatré anni, nato a Messina ma cresciuto ad Assisi, Pietro Passeri è figlio di commercianti. E finita la terza media – sono i primi anni Settanta – i genitori gli impongono la bottega di famiglia a Petrignano, una grossa frazione della cittadina nota per aver dato i natali a San Francesco.  

Pietro avrebbe preferito continuare a studiare, ma la sua curiosità lo spinge comunque a imparare un sacco di cose, pur dietro il bancone, invece che un banco di scuola (anni dopo però, frequenterà la scuola serale per prendere con ottimi voti, il diploma di ragioneria). Si appassiona ai prodotti che vende, in primis, formaggi e salumi, vuole capire da dove vengono, come si fanno; vuole esplorare l’intero universo alimentare. 

Grazie alla responsabile della biblioteca di Assisi, affascinata dalla sua capacità di “raccontare” un prodotto, inizia a leggere libri di gastronomia, trattati dedicati all’origine dei cibi, comprati appositamente per lui. Grazie a un’insegnante elementare, anche lei ammirata dal suo eloquio, scopre di essere bravo a spiegare e a mostrare a un pubblico (in quel primo caso, di bambini e ragazzi) come si fa il formaggio, come si conservano certi alimenti, quali sono le loro qualità. E grazie a quelli che chiama “i miei maestri di Perugia”, altri esercenti appassionati del proprio mestiere, impara pian piano a conoscere e apprezzare le specialità locali, a comporre i banchi, e a farne un lavoro extra, di domenica. 

È così che, insieme ad altri, negli anni Ottanta, inizia a pensare di dar vita al progetto di una “scuola nazionale di alimentazione” che poi, anni più tardi, è diventata l’Università dei Sapori di Perugia, di cui è uno dei fondatori ed esponenti.

Scoperte continue

Ma facciamo un passo indietro. Negli anni Novanta Pietro Passeri scopre il sindacato di categoria Fida, con la Confcommercio, che continuerà a impegnarlo anche dopo il Duemila. Intanto, a Terni, ha già iniziato a dare i primi corsi ai suoi colleghi: di giovedì pomeriggio, in una macelleria con un ampio banco di salumi e formaggi, chiusa per riposo settimanale, spiega per quattro ore i principi della merceologia ai colleghi. Parte dalla storia della materia prima, dalla caseificazione, per parlare di tecniche di taglio, di esposizione, di vendita, di team management.

Comincia a fare il pendolare tra il suo negozio – che nel frattempo è diventato un supermarket – e Terni, dove nel frattempo si è fidanzato, e poi finirà per sposarsi. E 10 anni dopo finisce per vendere l’attività familiare, dandosi alla formazione e alla gastronomia. Anche se, spiega, “oggi mi sento più antropologo che salumiere, più gastrosofo che gastronomo. Per me è un mondo meraviglioso fatto di continue scoperte, come fu la prima volta per il formaggio”.

In questa fase, si colloca il Pietro Passeri del Guinness dei primati. Inizia scommettendo un caffè con un collega su chi taglierà a mano, col coltello, la fetta più lunga di prosciutto crudo, finisce nel 1997 col record mondiale: in sette ore e mezzo taglia un’unica fetta, sottile e strettissima di 106 metri e 38 centimetri. Per arrivarci, non ha studiato solo la tecnica di taglio, ma si è convertito al training autogeno, ha imparato tecniche di concentrazione e rilassamento, ha smesso di fumare, ha modificato il suo modo di alimentarsi.

“La formazione fa crescere”

Oggi Pietro continua a studiare. È al secondo anno di un corso universitario denominato MICO (Made in Italy, Cibo e Ospitalità) che ne dura tre. “Credo moltissimo nella formazione, io stesso continuo a studiare, a imparare, a scoprire. Cercare sempre di capire è il sale della vita, secondo me”.

Si arrabbia però quando pensa ai suoi colleghi che considerano la formazione una “perdita di tempo, perché sottrarrebbe ore al lavoro”, mentre invece è un investimento: “la formazione fa guadagnare, la cultura è business”, spiega. Un addetto alle vendite che ha un buon rapporto col cliente, lo fidelizza.

E lo spiega ai suoi “alunni”, che siano addetti di un negozio specializzato in prodotti di eccellenza in una località turistica esclusiva o dipendenti della filiale di una catena di supermercati di provincia: “Cerco di far capire che la formazione può aiutare a crescere. Non si può lavorare solo su prezzi sempre più bassi, serve la qualità, e il rapporto umano”.